Comprereste una macchina che è sicuramente meno buona di quella che avete pianificato di comprare (in termini di sicurezza e durata), solo perché costa un po’ meno? La risposta ovviamente dipende dalla grandezza di queste differenze: se la sicurezza fosse inferiore dello 0,05%, ed il costo inferiore del 20%, allora la risposta sarebbe positiva; se però la sicurezza fosse inferiore del 20% ed il costo dello 0,05%, allora la risposta sarebbe negativa. Questo esempio descrive (dal punto di vista del medico pratico e del paziente) cosa sono realmente gli studi di non inferiorità, che forse faremmo meglio a chiamare studi relativi ad «un piccolo peggioramento».
Ci troviamo spesso a valutare lavori e/o protocolli che affermano che qualcosa è, o dovrebbe essere, non-inferiore rispetto a qualche altra cosa. Questo non è soltanto un altro «orpello» statistico di cui il clinico può disinteressarsi, ma è invece essere qualcosa che può influenzare la nostra pratica clinica. Quindi noi clinici dobbiamo capire le regole di base degli studi di non-inferiorità.
Uno studio di non-inferiorità ha l’obiettivo di dimostrare che il farmaco o la procedura che stiamo valutando non è peggiore del farmaco o della procedura di controllo più di una «quantità» (piccola!) prespecificata. Questa piccola (si spera molto piccola!) «quantità» si chiama margine di non inferiorità, o delta; se si vuole dimostrare la non-inferiorità, il margine delta deve essere chiaramente specificato nel protocollo di studio.
La logica degli studi di non inferiorità è diversa da quella dei tradizionali studi di superiorità: in uno studio di superiorità si ha un’ipotesi nulla (non c’è differenza tra trattamento e controllo) ed una ipotesi alternativa (esiste una differenza tra trattamento e controllo) che prenderemo in considerazione una volta confutata l’ipotesi nulla. Viceversa negli studi di non inferiorità l’ipotesi nulla è che esiste una differenza tra controllo e trattamento, e l’ipotesi alternativa è che non vi sia una differenza dimostrabile tra controllo e trattamento.
Al termine dello studio, per poter confermare la non inferiorità della terapia o procedura testata, il limite inferiore dell’intervallo di confidenza al 95% della differenza tra trattamento e controllo non deve superare il limite del delta; in altre parole, noi vogliamo essere sicuri al 95% che il trattamento in sperimentazione non è peggiore del controllo di una quantità superiore al delta. Ma vien fatto di chiedersi: chi sceglie il delta, e perché? I possibili motivi per accettare un delta includono una minor tossicità, una maggiore facilità di somministrazione, un costo inferiore, etc. Ma è stato obiettato: perché non si costruisce un endpoint che includa tutti questi aspetti, e si esegue poi un classico studio di superiorità? Ad esempio, si pensi ai DOAC: gli studi fatti fino ad oggi hanno dimostrato che DOAC sono non-inferiori al warfarin in termini di ictus ischemico; un possibile (ma mai condotto) studio alternativo avrebbe potuto verificare che i DOAC sono superiori in termini di ogni ictus (anche emorragico!) e tromboembolismo.
Ma torniamo per un momento al problema della scelta del delta. L’EMA già nel 2005 ha chiaramente affermato che quando il trattamento in esame è usato per la prevenzione della morte, non si può giustificare qualsiasi margine (ovvero aumento) dell’endpoint. Nessuno pensa che esista un paziente che, correttamente informato, darebbe il suo consenso a essere trattato con un farmaco che, anche se più facile da assumere, comporterebbe per lui/lei un rischio maggiore (anche solo dell’ 1%) di morte. Ci possono peraltro essere situazioni in cui qualche tipo di non-inferiorità può essere accettabile. Ad esempio, supponiamo di provare una nuova formulazione di ASA completamente priva di effetti collaterali gastrici. Ci sarà un vantaggio per il paziente se si dimostra che la nuova formulazione è non-inferiore rispetto alla vecchia (che alcuni pazienti devono comunque interrompere per gli effetti collaterali). Ma che delta andrebbe scelto? Una ipotesi accettabile potrebbe essere la seguente: rischio col nuovo farmaco 2.5%, rischio col vecchio farmaco 5%, efficacia del vecchio farmaco 20%, Delta: 1-2%. Ma che ne penserebbero i pazienti?
a cura di Manuel Cappellari, Stefano Ricci, Danilo Toni.